PHILIP SCHULTZ, ERRANTI SENZA ALI – DONZELLI, ROMA 2016
Nel commentare il libro di Philip Schultz – con testo inglese a fronte – appena uscito da Donzelli, vorrei soffermarmi sulla nota finale delle traduttrici (Basile, Mormile, Rava, Robustelli, Splendore), per rendere il meritato riconoscimento all’operazione difficile e misconosciuta della traduzione. Le autrici, rendendo conto del loro esperimento durato più di un anno (incoraggiato dall’associazione romana Monteverdelegge), vantano il lavoro di gruppo «perché agisce come correttivo di atteggiamenti di prevaricazione sul testo più facilmente diffusi nelle traduzioni fatte singolarmente». Una di loro, Paola Splendore, ha firmato anche l’esaustiva postfazione, presentando la biografia e la produzione letteraria di Schultz, «personalità poetica estranea a scuole e movimenti, la cui forza è nel linguaggio intimo e diretto con cui tratta i suoi temi». Nato a Rochester nel 1945, da una modesta famiglia di ebrei immigrati dall’Europa orientale, l’autore di queste poesie ha vissuto un’infanzia e una giovinezza difficile, minata dalla dislessia e da altri problemi psichici, che lo portarono a un tentativo di suicidio, all’internamento in una clinica e alla cura con l’elettroshock. Queste esperienze sofferte trovarono poi un loro riscatto nella scrittura, dapprima in prosa (sulle tracce di Hemingway, Salinger e Bellow), quindi in poesia, con la pubblicazione di diversi volumi, uno dei quali, Failure (2007) vinse il Premio Pulitzer.
Da questa raccolta, che proprio al fallimento umano (espresso dalla fragilità mentale, dall’esclusione sociale, dalla povertà intellettuale e materiale del suo ambiente nativo) era intesa a offrire un solidale e affettuoso omaggio, sono tratte le quattro sezioni di Erranti senza ali.
Chi sono questi erranti (The Wandering Wingless) è presto detto: i vinti della storia, le persone che trascorrono la loro esistenza senza lasciare traccia di sé, prive di qualsiasi aspirazione alla trascendenza, costrette alla pura lotta quotidiana del sopravvivere. Quindi i genitori, la madre umiliata in lavori sfibranti («le dita rosse e gonfie / per i tagli della carta, / gli occhi, fondali neri»), il padre, figura odiata-amata per la sua violenta e castrante nullità («perché / papà non possedeva, non credeva, / non ammetteva, non capiva / non amava niente… perché / era così spaventato / dalla bontà / che aveva dentro?»). Erranti senza riposo e spersi nei loro sbagli, nelle loro colpe, senza possibilità di redenzione: erranti come l’ebreo che vaga per il globo non sapendo dove e come fermarsi, scontando una condanna più divina che storica. Così Schultz si inventa un alter ego, un dog-walker di New York che porta a passeggio, attraverso il Village, la Madison Avenue, la Washington Square, Soho o il Central Park, i cani aristocratici dei ricconi americani: quadrupedi dalla tosatura costosa, dai nomi sfiziosi o altosonanti («Vanno forte gli scrittori / ora: ho un Gogol, un Omero e due Wolf»), cagnoline sexy, barboncini incappottati elegantemente, alani imponenti. Mescolandosi all’umanità più varia e a «una noia del mondo / squisitamente illecita», il dog-walker si annulla come persona, riducendosi ad accompagnatore-servo di viziati animali domestici: «Porta a spasso cani per campare / e diventi inesistente, / eclissato / da una forza superiore». Le sue minime considerazioni filosofiche sulla superiorità canina rispetto all’egoismo superficiale degli esseri umani sono inframezzate da flashback che hanno la crudele evidenza di incubi (il ricordo dell’11 settembre, la morte del padre e della nonna, la perdita della cagnolina più amata nell’adolescenza, la malattia mentale, il lavoro nero come operaio edile): e la colloquialità dello stile – espressa in versi brevi, serrati, ritmici – bene si accorda col tono (talvolta ironico, sferzante, e più spesso commosso, malinconico) di tutta la raccolta, intenerito omaggio alla sconfitta: «Al mondo per me / non c’è niente di meglio / che guardare correre i cani, / la lingua penzoloni, / le orecchie sventolanti, / il cuore che gli scoppia / contro le costole», «ognuno di noi / è un’emergenza che si prepara / ad accadere, una storia / di implacabile dolore, / Un World Trade Center / di immane rovina, / un riverbero, una teologia, / … tutto tenuto insieme per caso, / solo per caso», «Mi spaventava tutto quello che amavo. / Era questo il fallimento? – / Una paura senza fine?»
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www.sololibri.net/Erranti-senza-ali-Philip-Schultz.html 15 settembre 2015