MICHEL SERRES, CONTRO I BEI TEMPI ANDATI – BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2018

Prossimo ormai ai novant’anni, il filosofo francese Michel Serres continua a stupire il mondo con la sua saggistica vivace, piena di entusiasmo e ottimismo, aperta ad ogni rivoluzionaria scoperta scientifica e tecnica, solidale con le giovani generazioni che abitano il virtuale. Decisamente favorevole alla “civiltà dell’accesso”, ama presentarsi come strenuo difensore di Internet e di Wikipedia, e di qualsiasi nuova modalità di espressione nella scrittura, nel linguaggio parlato, nell’arte, per una cultura finalmente accessibile a chiunque, in ogni luogo, senza barriere e pedanteschi paludamenti. Nato ad Agen nel 1930, figlio di un conduttore di chiatte, studiò all’École Navale e  all’École Normale Supérieure, impiegandosi come ufficiale di marina prima di ottenere il dottorato in filosofia nel 1968 e cominciare ad insegnare a Parigi. I suoi studi scientifici e di linguistica furono da subito orientati eticamente verso la critica di ogni bellicismo e potere reazionario, valorizzati da scambi e reciproche influenze tra i diversi saperi e discipline. Membro dell’Académie Française dal 1990, è oggi considerato uno degli intellettuali più rappresentativi e dei teorici più stimolanti nel suo approcciarsi criticamente e in modo divulgativo alla cultura contemporanea. In Italia quasi tutti i suoi lavori, espressi in una lingua lineare e accattivante, sono stati pubblicati da Bollati Boringhieri. Si tratta in genere di pamphlet scritti per un pubblico non specialistico, con l’ambizione di contestare pregiudizi radicati nelle coscienze e nell’immaginario collettivo, e di provocare nei lettori curiosità, domande e contestazioni, sempre da lui considerate proficue e necessarie.

In un volumetto uscito nel 2013, Non è un mondo per vecchi, si augurava la nascita di una società “nuova, variabile, mobile, fluttuante, variopinta, tigrata, cangiante, intarsiata, musiva, musicale, caleidoscopica…” e soprattutto “connessa”, in grado di occupare spazi orizzontali di vicinanza simultanea e democratica, offrendo risposte adeguate alle aspettative dei giovani in ambito scolastico, professionale e di utilizzo del tempo libero. Se in pochi decenni si è trasformato clamorosamente e irreversibilmente il nostro modo di vivere occidentale (boom demografico ed economico, libertà sessuale, longevità, multiculturalismo, progresso scientifico e tecnologico, aumento dell’istruzione e della ricchezza pro capite, assenza di conflitti bellici), è doveroso ideare nuovi metodi di trasmissione della conoscenza, di fare politica, di lavorare e di comunicare. Bisogna sconvolgere, rendere permeabile e disordinata ogni forma antiquata di pedagogia. “L’era dei decisori è finita… il solo atto intellettuale autentico è l’invenzione”. C’è un rischio in questa rivoluzione culturale che rende ciascuno più libero, indipendente, attivo e creativo? Certo, e Serres ne è ben consapevole: esiste una “presunzione di competenza”, che può illudere chiunque sulle proprie capacità intellettuali o artistiche, rinsaldando alla fine e nuovamente il sapere nelle mani dei soliti, pochi, manovratori. Ma è un rischio che vale la pena di correre, perché il passato va superato e vinto, anche di fronte alla prospettiva di un futuro ancora nebuloso.

Nell’ultimo saggio da poco pubblicato, Contro i bei tempi andati, l’autore sconfessa e ridicolizza senza remissione chiunque deprechi il presente in nome degli anni “di prima, di una volta”, rivisitati ed edulcorati con ipocrita nostalgia. I trentatré paragrafi di cui si compone il testo hanno due referenti immaginari: un Vecchio Brontolone, arcigno denigratore del tempo presente, e Pollicina, ragazza “disoccupata o stagista” che nel suo smartphone, ossessivamente consultato, contiene tutto il sapere del mondo. Serres prende chiaramente posizione a favore di quest’ultima, sottolineando quanto la storia, la civiltà e la cultura dei secoli scorsi, fino a buona parte del ’900, abbia prodotto di negativo e crudele nella vita degli individui (guerre, eccidi, dittature, torture, epidemie infettive, oscurantismo, retorica patriottica, razzismo e sessimo). Lo fa con cognizione di causa, avendo vissuto un’infanzia e una giovinezza tormentata da povertà e fame, da bombardamenti e persecuzioni, da tabù ed emarginazione: si sofferma a descrivere i suoi primi vent’anni, vissuti in una famiglia operaia sulle rive della Garonna, lavorando nei campi o nei cantieri navali per pagarsi gli studi.  Elenca quindi una serie di disagi e difficoltà concrete che le popolazioni a cavallo tra le due guerre mondiali dovevano patire, tra scarsissima igiene, malattie malcurate, sessualità inibita, ignoranza e superstizioni, comunicazioni precarie, lavori domestici faticosi, totale assenza di ammortizzatori sociali. L’ovvia commozione nel ricordare “i bei tempi andati” è corretta da una bonaria ironia e da un sorriso di compatimento, nel ribadire a chi afferma che si stava meglio quando si stava peggio una verità scontata e incontrovertibile: quando si stava peggio, si stava davvero peggio.

© Riproduzione riservata                «Il Pickwick», 14 giugno 2018