DIANE SEUSS, LA RAGAZZA DALLE QUATTRO GAMBE – ENSEMBLE, ROMA 2021
Premio Pulitzer 2022 per la poesia, la statunitense Diane Seuss è stata pubblicata per la prima volta in Italia dalla casa editrice romana Ensemble, con il volume La ragazza dalle quattro gambe. L’introduzione di Alessandra Bava, che ne ha curato la traduzione insieme a Maria Adelaide Basile, parla esplicitamente per questo testo di “invenzione di una nuova forma poetica americana”. La poeta stessa ha infatti coniato per la propria scrittura l’espressione freaking form, intendendo con ciò di aver voluto “apprendere forme tradizionali per usurparle, rovesciarle, riutilizzarle”, facendo dei suoi versi una sorta di scherzo di natura.
E agli scherzi di natura, alle deformità, ai deragliamenti da regole e consuetudini è dedicata anche la presente raccolta, il cui titolo rimanda all’infelice figura di Myrtle Corbin, nata nel 1868 e affetta da dipigo, il cui corpo terminava con due bacini e quattro gambe. Diventata nel 1913 una delle attrazioni più celebri del Circo Barnum, a lei è dedicato il testo conclusivo del libro (Is there still a Betty in this new life?): “Per aver visto lungo la strada per Ramptown, le gambe in più penzolare / inutili tra le cosce delle altre due, inutili come un usignolo / meccanico, inutili come la frangia del tuo kimono transilvano, / cantai sottovoce // … le tue gambe non erano petali o viticci come avevo creduto, // ma sfrontate, i tentacoli aberranti sotto la veste di una regina segreta”.
Nata in una small town del Michigan nel 1956, rimasta orfana di padre a sette anni, dopo il liceo Diane si trasferisce a New York, lavorando come segretaria e scrivendo romanzi rosa e pornografici per mantenersi. Si introduce nello spietato mondo artistico della metropoli, unendosi agli adepti di William Burroughs e Andy Warhol. Alla morte del suo compagno per overdose, torna a vivere nel Midwest, si laurea in Scienze Sociali presso il Kalamazoo College, dove continuerà a insegnare scrittura creativa per trent’anni.
L’ambiente sociale in cui ambienta i suoi versi è quello miserevole dell’infanzia, con strade sterrate, paludi infestate da cicale, paesi semideserti, pochi negozi, qualche pollaio e la morte che si aggira tra imprese di pompe funebri e cimiteri. La sua adesione anti-intellettualistica al mondo degli emarginati deriva da una concreta esperienza esistenziale, come afferma in una orgogliosa dichiarazione di poetica: “Ritengo che il mio lavoro possa essere definito come punk rurale. Emerge dagli spazi rurali alla ricerca della durezza, della stranezza, dell’assurdità, della tigliosità, della rabbia e del dolore di ogni cosa in contrapposizione alla rusticità. La ruralità non è meno punk dell’urbanità. La mia estetica è quella delle carcasse di animali investite. Dei fantasmi che fumano sigari lungo le sponde del fiume”.
La campagna, infatti, fa da sfondo alla maggior parte delle composizioni, mantenendo nel suo rivelarsi qualcosa di minaccioso e di putrido, persino nella sua colorata e lussureggiante fertilità: “nella merda di falco, nella borragine, nel crescione, / nella licnide, nella vite americana, nella fitolacca, nella phryma, nel convolvolo, / nel trifoglio e nel fiore di caprifoglio, bianco come osso bollito”, “Gli iris si alzano su steli carnosi, / i boccioli ancora avvolti in qualcosa di simile a cartine, / il viola che passa attraverso, il colore delle viscere”, “Qui, a metà maggio, passato il fiore degli anni, / i tulipani ingialliti e spampanati come cose trascinate a riva, / e le ragazzacce si sono tolte gli abiti da sposa, hanno fatto ricadere le tette, / hanno allentato i loro strascichi. La bellezza era un fardello, dopo tutto, / non è vero?”, “Ricordi quella primavera? La brezza odorava di preparato per torte / e di un certo non so che di sodomia nell’aria. Forse era la spirea, / che olezzava di spermatozoi e detersivo al pino”.
Dalla desolazione campestre del Michigan, ancora più squallida negli interni domestici, al feroce abbruttimento del periodo newyorkese, Diane Seuss sembra non volersi risparmiare nulla in infelicità e abiezione: a sfregio di ogni facile e privilegiato perbenismo, sceglie l’abisso, il degrado, e la provocazione diventa per lei bandiera. Il rifiuto riguarda ogni cosa, dalla banda degli amici punk all’intellettualità di moda, dalla maternità alla religione (“Dio ha persino il voltastomaco per le preghiere / dei credenti. Sono sudaticce e ampollose, / non come stalker ma come guardoni, che propendono / all’introversione e alla balbuzie”). Soprattutto respinge l’idea di morte, dopo che quella paterna ha tormentato il suo immaginario infantile, lasciando in lei cicatrici indelebili: “i tumori di mio padre / sbocciavano come i palloncini nei cartoni animati”, “quando / ero bambina, la bara nera di mio padre mi ricordava // un piano. Un piano senza tasti. Ero abbastanza / giovane da credere che fingesse di essere morto / e i miei // incubi erano colmi della sua strana resurrezione, / braccia cariche di gigli bianchi”.
Finché, per salvarsi, decide di anestetizzarsi, cementandosi: “Non c’era sollievo a essere / umana e così mi trasformai in pietra / e ora non provo sollievo / a essere una pietra. Non / ho scelto di essere pietra”.
Nella postfazione, Maria Adelaide Basile insiste giustamente sullo stile immaginoso delle frequenti metafore usate da Diane Seuss, sempre visivamente plastiche, mescolanti realtà e magia, storia e affabulazione. Le immagini che ci scorrono sotto gli occhi sono nitide e oniricamente svianti, nel loro variopinto anarchismo, capaci di suscitare inconciliabile rabbia, e umanissima pena.
© Riproduzione riservata «Gli Stati Generali», 30 maggio 2022