EDITH SŌDERGRAN, NOTTURNO E ALTRE POESIE – MAURO PAGLIAI, FIRENZE 2009
Alla poeta finno-svedese Edith Södergran (San Pietroburgo, 1892–Raivola, 1923) l’editore Mauro Pagliai ha dedicato nel 2009 l’antologia Notturno ed altre poesie, con testo a fronte e cura di Bruno Argenziano. Considerata la fondatrice del modernismo finlandese, Södergran ha influenzato la lirica nord-europea fra le due guerre mondiali attraverso la sua delicata ma intensa voce poetica, che raccoglieva le eredità del Simbolismo francese, dall’Espressionismo tedesco e dal Futurismo russo, filtrandole con “raffinata sensibilità e prorompente vitalità”. Esordì nel 1916 con la raccolta Poesie, alla quale seguirono altri quattro volumi di versi, in cui sempre si evidenziava un’acuta percezione visiva e affettiva della natura.
“Di tutto il nostro assolato mondo / desidero soltanto una panchina da giardino / dove un gatto prende il sole…”; “Gli amari garofani allignano lungo la via / dove impenetrabile si fa la penombra dell’abete”; “Me ne sto sola fra gli alberi del lago, vivo in amicizia coi vecchi abeti della riva / e in segreta concordia con tutti i giovani sorbi”.
Nata a San Pietroburgo, Edith visse con la famiglia tra la capitale russa e Raivola (oggi Roshchino), piccolo centro a pochi chilometri dal mare e dal confine con la Finlandia, scelto come meta estiva dalle famiglie borghesi della zona. Educata in prestigiosi collegi, si esprimeva perfettamente in russo, in tedesco, e ovviamente nella lingua materna, lo svedese parlato in Finlandia. Leggeva testi sia nelle lingue classiche, sia in francese, inglese, italiano. Dai temi di ispirazione elegiaca delle prime raccolte, l’interesse della giovane poeta si orientò verso interessi politici e filosofici, frutto di approfondite letture, soprattutto da Freud e Nietzsche, con una precoce e risentita attenzione nei riguardi del ruolo subalterno delle donne nella società. Quindicenne si ammalò di tubercolosi, la stessa malattia che aveva portato alla morte suo padre, e che la costrinse a lunghi periodi di cura in sanatori svizzeri, uccidendola a soli trentun anni. Il presentimento della morte velava i suoi versi di malinconia e pessimismo, insieme al nostalgico desiderio di un amore e di un futuro che sapeva irrealizzabili:
“Il futuro getta su di me la sua ombra beata; / non è altro che fluente sole: / trafitta di luce morirò, una volta calpestato tutto il fortuito, / con un sorriso volgerò le spalle alla vita”; “Tra breve vorrò stendermi sul mio giaciglio, / i folletti mi copriranno di bianchi veli / e rosse rose spargeranno sulla mia bara. / Muoio – perché son troppo felice”; “Amavo una volta un uomo, non credeva in nulla… / Venne un freddo giorno e gli occhi eran vuoti, / se ne andò un plumbeo giorno e c’era oblio sulla fronte”.
Recentemente, non solo nel mondo scandinavo ma anche in Italia, le poesie di Edith sono state lette, recensite e citate con grande interesse dalla critica femminista, che ha trovato nella poeta finno-svedese un’intelligente anticipatrice delle tematiche più cogenti della lotta di liberazione della donna. L’orgoglio della propria femminilità la rendeva erede delle grandi figure del mito, e contemporaneamente proiettata in un mondo di gioiosa indipendenza fisica e intellettuale:
“A piedi / mi toccò attraversare il sistema solare, / prima di trovare il primo filo del mio abito rosso. / Ho già il presagio di me stessa. / In qualche posto nello spazio è appeso il mio cuore, / faville si sprigionano da esso, e l’aria si scuote, / verso altri smisurati cuori”.
© Riproduzione riservata «SoloLibri», 6 luglio 2024