GEORGE STEINER, ERRATA – GARZANTI, MILANO 1998-2008
Mi sono spesso domandata come mai i libri di George Steiner, e la sua intera vita, suscitino in me un così vivo interesse, e una forte partecipazione emotiva, unita a una vivida corrente di simpatia umana. Non è solamente perché, a differenza di molti critici letterari, Steiner si esprime sulla pagina con una sapienza non tediosa o saccente, e con una buona dose di leggerezza ironica; non è nemmeno per la vastità dei suoi interessi e l’enciclopedismo della sua cultura, per quanto queste doti provochino non solo la mia ammirazione, ma anche una certa benevola invidia. Ma è soprattutto la profonda umanità, lontana da ogni accademismo, che trapela dai suoi scritti che mi conquista, perché la si avverte generata e nutrita dal terreno fertile di una passione totale e incontenibile per il sapere, in ogni aspetto – luogo e tempo ‒ esso si manifesti o si sia manifestato.
L’autobiografia uscita una ventina di anni fa da Garzanti ha il pregio di introdurci a un percorso intellettuale ed esistenziale di grande rilevanza, di pacato ma solido addestramento mentale. Già dal titolo Errata che, nella sua ammiccante modestia, in bibliografia rimanda agli errori commessi nella stampa di un libro. Mentre il sottotitolo, Una vita sotto esame, sottintende giocosamente chi sia il giudice più severo del cammino umano e professionale dell’autore.
Nato a Parigi nel 1929 da una colta famiglia ebraica di origine austriaca, che si trasferì negli Stati Uniti nel 1940 per sfuggire all’antisemitismo diffuso in Europa, Steiner è stato celebrato critico letterario per il New Yorker, The Economist e il Times literary supplement; ha occupato prestigiose cattedre universitarie a Ginevra, Oxford, Princeton, Stanford. Si è interessato soprattutto di linguistica (impegnandosi a farla uscire dalle strettoie puramente accademiche dello strutturalismo), di comunicazione e di traduzione, intese anche nel loro rilievo etico e sociale. Multiculturalismo e multilinguismo sono sempre stati da lui considerati come un arricchimento per l’umanità intera: Babele diventa simbolo di vitalità ed energia, non di anarchia, indebolimento o perdita di identità, poiché è capace di generare realtà alternative, proiettate nel futuro, mentre l’egemonia totalizzante delle lingue maggiori ha condotto a un processo di massificazione e livellamento della cultura occidentale. Forse per questa sua diffidente insofferenza soprattutto nei riguardi dell’inglese, Steiner non è tra i massimi estimatori di Shakespeare, che considera “disuguale, eteroclito, ridondante, inferiore a se stesso, come lo è la natura umana… tragicomico in ogni fibra”. Tra gli autori teatrali, apprezza ovviamente i tragici greci (The death of tragedy, 1961; Antigones, 1979), e poi Racine: sobrio, rigoroso, lucido e introspettivo, il cui riguardo verso l’essenzialità e la dignità morale ha avuto come erede Beckett.
Cosa intenda Steiner per “classico” è facilmente intuibile. In letteratura, come nell’arte, nella musica o nella filosofia, esso ci trasforma, modifica la nostra coscienza in modo talvolta traumatico o inatteso, non si accontenta di venire solo recepito o capito, ma richiede una nostra re-azione, riordinandoci o dislocandoci nello spirito e nelle idee, provocando “scosse sismiche interiori”. “Il classico possiede il diritto imperioso di esigere e di generare una risposta, una ripetizione attiva… va letto con una matita in mano”.
Oggi ci riconosciamo tutti epigoni di una grandezza irripetibile, testimoni di un crepuscolo intellettuale e culturale inevitabile, vittime come siamo del culto dell’effimero, e indifferenti alla durata nel tempo. Temiamo non possano più nascere un Rembrandt, un Dante, un Mozart: ma non possiamo nemmeno escludere la possibilità di ulteriori e stupefacenti riprese artistiche e teoriche.
L’amore per la musica (“La musica mi trasporta spesso ‘fuori di me’ o, più esattamente, in una compagnia molto migliore di me stesso”), la venerazione che George Steiner confessa per i grandi creatori di armonie del passato ‒ da Bach a Schubert, da Brahms a Schönberg ‒ deriva dalla consapevolezza che l’unico linguaggio davvero universale e unificante è appunto quello musicale, “esperanto delle emozioni”, capace di trasportarci al di là di ogni confine puramente materiale, lasciandoci intuire un trascendente che ci disincarna. Mentre il discorso parlato e scritto rimane lineare e sottoposto a una sequenza temporale, la musica utilizza un linguaggio più libero, a volte contradditorio e incoerente, che risponde solo a se stesso, alieno alla verità e alla menzogna anche nella sua molteplicità e polifonia.
Pittura, poesia, musica e filosofia riescono a farci superare ogni meschina differenza o diffidenza che possa sorgere all’interno delle nostre comunità, ignorando sterili nazionalismi: «Si può essere a casa propria dappertutto. Datemi un tavolo da lavoro, sarà la mia patria», si è sempre vantato Steiner, indagatore instancabile di paesi, lingue, tradizioni diverse, e tuttavia orgogliosamente fiero delle proprie radici ebraiche, e persino dello stigma persecutorio patito dal suo popolo. Agli ebrei riconosce un’eccellenza intellettuale e caratteriale che li ha resi ovunque diversi, e invisi agli altri popoli, soprattutto per la severità dei dettami morali e delle regole rituali, basate su una teologia e una metafisica totalizzante che li ha qualificati come “krank an Gott”, malati di Dio: in qualche modo eternamente “altro” nei confronti di un mondo rimasto estraneo.
L’altera rivendicazione dell’irriducibile singolarità dell’ebraismo viene giustificata da Steiner con la convinzione della supremazia dell’intelligenza su qualsiasi altra dote umana, al punto da ritenere, manifestando un utopismo ingenuo ed elitario, che solo un’élite di menti elette e illuminate potrebbe essere in grado di guidare le masse, indifferenti ai valori culturali, e interessate esclusivamente a una sopravvivenza a-problematica e garantita: “È incontestabile che per quasi tutta la specie homo sapiens sapiens la fede mondiale attuale sia il calcio”, mentre le arti e il pensiero vengono considerati come “un gioco più o meno ozioso o un lusso evidente”.
“Anarchico platonico” come si definisce, lo studioso cosmopolita non ha mai aderito a uno schieramento politico particolare, dichiarandosi pronto tuttavia ad appoggiare qualsiasi ordine sociale fosse in grado di diminuire la sofferenza nel mondo, favorendone il progresso e la pace.
A parte qualche perdonabile traccia di narcisismo (più che giustificata, visto lo spessore intellettuale del personaggio), e alcune insistite prese di posizione ideologiche, discutibili nella loro spontanea imprudenza, tutta questa biografia risulta piacevolmente leggibile, soprattutto nelle pagine più direttamente personali, rievocanti l’infanzia e gli anni di formazione. Iniziando dal ricordo del padre, illustre e coltissimo banchiere ebreo nella Vienna del primo Novecento, che volendo assolutamente fare del figlio un umanista, lo aveva invogliato a leggere l’Iliade in greco a soli sei anni, e lo cresceva impartendogli in tre lingue lezioni di filologia, di musica classica e di Talmud (“Mio padre fece della mia infanzia una festa esigente”). Gli anni del liceo francese a Manhattan lo abituarono a convivere con ambienti e sistemi educativi diversi, tra profughi ed esiliati, o figli di diplomatici e di plutocrati.
L’università a Chicago alla fine degli anni Quaranta (“una megalopoli di pura intensità”) lo avvicinò a nuove avventure dello spirito, con la scoperta del jazz, l’interesse per la scienza, le tensioni razziali, le interminabili discussioni politiche tra coetanei, le prime esperienze sessuali, il poker, lo sport: “quelle arti dell’ordinario che sono le più difficili da acquisire per un topo di biblioteca, un privilegiato intellettuale ebreo”. Fu allora che raggiunse la consapevolezza di voler diventare un insegnante, in una notte in cui aveva aiutato i compagni a interpretare un racconto di Joyce, conquistandone una stima rispettosa, ammirata e commossa. “Da quella notte in poi, le sirene dell’insegnamento e dell’interpretazione hanno cantato per me”.
Non solo insegnante, però. L’ansia e la voluttà di imparare hanno assediato ogni attimo della vita di George Steiner, con il timore di avere disperso e sprecato molte energie in troppe ramificazioni del sapere, e il rammarico di non averne approfondite ancora di più: “Rimane in me la sofferenza all’idea delle porte che non ho aperto: la mia ignoranza del russo da una parte, la mia incapacità di accedere all’Islam dall’altra… Adesso che la mia fine si avvicina, so che la mia solitudine affollata, che l’assenza di qualsiasi scuola o movimento nato dalla mia opera e la somma delle imperfezioni sono, in gran parte, colpa mia”. Basterebbe tuttavia leggere lo splendido ultimo capitolo di questa autobiografia per convincersi dei meriti, ben maggiori delle eventuali colpe, di questo grande, saggio e lucido intellettuale.
Maestro e discepolo insieme, ha vissuto dedicandosi allo studio, alla riflessione, all’esegesi, alla passione per il linguaggio in ogni sua espressione: l’esistenza, per quanto lunga e piena di incontri, avvenimenti e libri, è comunque troppo breve per chi come lui, polymath versatile e vorace, ha sempre manifestato la necessità e il desiderio di sopravvivere alla propria transitorietà umana.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 27 agosto 2019