TZVETAN TODOROV, LA LETTERATURA IN PERICOLO – GARZANTI, MILANO 2008-2018
Ci sono libri preziosi, che hanno il grande merito di racchiudere, in poche pagine di scorrevole lettura, i caratteri fondamentali del pensiero di un autore, le scelte che ne hanno determinato la formazione e lo sviluppo, gli snodi essenziali della sua biografia. È il caso di un volumetto di Tzvetan Todorov, pubblicato da Garzanti nel 2008 e riedito nel 2018, intitolato La letteratura in pericolo. Todorov (Sofia 1939-Parigi 2017) è stato un critico letterario, un linguista e un saggista di fama internazionale, che nei primi anni della sua carriera ha contribuito a diffondere in Europa gli studi dei formalisti russi, basilari nell’influenzare la cultura strutturalista degli anni Sessanta.
Nella breve introduzione a questo volume racconta di come, nella Bulgaria comunista del dopoguerra, si fosse sottratto al severo controllo della autorità accademiche sull’ortodossia marxista-leninista degli studi universitari, scegliendo di laurearsi con una tesi asetticamente grammaticale. Trasferitosi a Parigi nel 1963 per il dottorato, divenne allievo di Roland Barthes, che lo indirizzò all’approfondimento delle leggi generali della linguistica e del simbolismo letterario. La scelta di restare in Francia, determinata da motivi sia familiari sia politico-culturali, si rivelò conveniente per la sua notorietà intellettuale già dalla prima celebre pubblicazione del ’65, Théorie de la littérature. Ricercatore, poi direttore presso il Centre national de la recherche scientifique, intorno agli anni ’80 prese le distanze dalla critica scientifica del testo per orientarsi verso interessi storici, antropologici, artistici ed etici, aprendosi al dialogo tra diverse culture e all’incontro con l’«altro». Per un trentennio esplorò eventi di cronaca e storia europea e americana, riflettendo su democrazia e totalitarismo, su civiltà e barbarie, sui destini dell’Europa di fronte al multiculturalismo e alle migrazioni. Affrontando inoltre temi decisamente inusuali per un linguista, come il ruolo dell’artista nella società, le derive autoritarie nei governi e nelle ideologie contemporanee, la scelta indifferibile tra bene e male: sempre con uno stile curato ed elegante, ma di grande presa comunicativa.
La fedeltà alla letteratura, iniziata nell’infanzia e protrattasi fino alla morte, indusse Todorov a scrivere pagine appassionate, con la volontà di renderne partecipi lettori di ogni provenienza, classe ed età, in un nobile desiderio di proselitismo e contagio amoroso: “La letteratura può molto. Può tenderci la mano quando siamo profondamente depressi, condurci verso gli esseri umani che ci circondano, farci comprendere meglio il mondo e aiutarci a vivere. Non vuole essere un modo per curare lo spirito; tuttavia, come rivelazione del mondo, può anche, cammin facendo, trasformarci nel profondo… Più densa, più eloquente della vita quotidiana ma non radicalmente diversa, amplia il nostro universo, ci stimola a immaginare altri modi di capirlo e organizzarlo… apre all’infinito la possibilità d’interazione con gli altri e ci arricchisce, perciò, infinitamente… permettendo a ciascuno di rispondere meglio alla propria vocazione di essere umano”.
Le considerazioni da cui parte il libro di cui ci occupiamo riguardano l’insegnamento delle lettere ‒ così poco fruibile e stimolante per i giovani ‒ nei licei e nelle università, dove si antepone l’ermeneutica del testo alla comprensione del testo stesso, privilegiando i metodi d’analisi critica al piacere della lettura. La trattazione esclusivamente filologica delle opere finisce per rinchiuderle in un loro limitato e autoreferenziale spazio interno, nell’indagine sugli strumenti formali di cui si servono e sui metodi interpretativi con cui approcciarvisi, escludendo il loro significato ultimo, le finalità che si propongono di raggiungere, il rapporto che hanno col mondo. In tal modo si creano lettori linguisticamente competenti ma annoiati, incapaci di trarre dai classici antichi e moderni la lezione davvero necessaria e illuminante: la riflessione sulle proprie scelte personali, l’apporto di esperienze che provengono dagli altri, l’apertura verso la realtà circostante.
Purtroppo, la concezione riduttiva della letteratura è oggi comune a insegnanti, giornalisti, recensori e scrittori, che sembrano compiacersi della sua autosufficienza e incomunicabilità, spesso tendente a un solipsismo narcisistico e nichilista, espressione di una radicale frattura tra l’io dell’autore e l’esterno. Da queste osservazioni preliminari, Todorov prende lo spunto per delineare una breve e puntuale storia dell’estetica e della critica letteraria, a partire dai greci. Se nella classicità la poesia aveva il compito di imitare la natura, o di piacere, istruire, educare, dal rinascimento in poi le si richiese soprattutto di essere “bella”, formalmente perfetta, quasi fosse una creazione in forma minore di un artista-demiurgo equiparato a Dio. L’opera d’arte non doveva essere sottoposta ad altre finalità o scopi che esulassero dalla sua autonomia e dal suo valore estetico, e lo scrittore andava giudicato solo in base al suo talento. Inizia così uno scollamento tra chi scrive, dipinge, compone musica e la realtà in cui vive, fino ad arrivare agli estremismi dell’epoca romantica, secondo cui ogni forma artistica supera qualsiasi altra espressione della ragione, fornendo “l’accesso a una realtà seconda, vietata ai sensi e all’intelletto, più essenziale o più profonda della prima”. L’arte, insomma, è portatrice di una verità e di un bene superiori a quelli della filosofia, della religione e della scienza: è estasi, rivelazione, assoluto. Nel XX secolo, con le pratiche espressive dell’avanguardia, si è aperto un solco profondo tra letteratura di massa (popolare, a contatto con la vita quotidiana) e letteratura d’élite, fruita da esperti interessati più che altro alla struttura formale dei testi: “da un lato il successo commerciale, dall’altro le autentiche qualità artistiche”. Ci troviamo oggi davanti a un panorama editoriale in cui la relazione tra scrittura e mondo è relegata a produzioni di consumo, ai best seller e a un pubblico di non specialisti, mentre l’intellettualità più raffinata si barrica nell’ermeneutica testuale, inibendo così una ricezione più complessa e arricchente della letteratura.
Tzvetan Todorov aveva intrapreso la carriera accademica (che gli ha valso numerosi premi internazionali e incarichi di prestigio in importanti università) proprio come studioso del formalismo e dello strutturalismo. La sua svolta ideologica verso un differente approccio culturale, che lo portò ad occuparsi della “scoperta che l’io fa dell’altro, l’incontro con il diverso per eccellenza”, fu determinata dal coinvolgimento psicologico nei riguardi della conquista dell’America, descritta nel volume omonimo del 1982. In esso ripercorre le sconvolgenti vicende che dal primo viaggio di Colombo fino al 1600 interessarono le popolazioni dei Caraibi e del Messico, e lo fa utilizzando le cronache e i diari dei conquistadores, testimonianze del più grande genocidio della storia umana, iniziato con la volontà di scoprire popoli e territori ignoti, e passato successivamente al volerli convertire, per poi conquistarli e infine distruggerli.
L’interesse politico e sociale per le sorti dell’umanità si rivelò preminente in tutte le successive pubblicazioni dello studioso bulgaro. Nel volume L’identità europea del 2009, giustamente riproposto da Garzanti in questo anno di elezioni, Todorov indaga le motivazioni che nel dopoguerra hanno spinto alcune nazioni a fondare l’Unione Europea, e i motivi per cui essa dovrebbe rinsaldare i propri principi costituenti, potenziando la sua influenza nel mondo. Sarà forse proprio la cultura a dare un impulso supplementare al ruolo politico del nostro continente: culla della filosofia, della poesia, dell’arte e della musica già dall’antichità, patria di geni universali, cementata da un’uguale spiritualità e sensibilità religiosa, resa incredibilmente unica da capolavori architettonici e plastici, aperta a influenze di pensiero provenienti da realtà lontane nel tempo e nello spazio, crocevia di scambi commerciali. Le nazioni europee sono “sufficientemente simili per dimensioni e potenza perché nessuna di esse possa sottomettere le altre”: ciascuna nella sua indipendenza conserva libertà di giudizio e pensiero, in un equilibrio di unità e pluralità che fa dell’Europa un caso unico tra i continenti. Così un tratto che può sembrare negativo, quale quello dell’eccessiva differenziazione tra i paesi membri, in realtà si trasforma “in qualità positiva assoluta: la differenza diventa identità e la pluralità unità”. L’unione europea si configura dunque nell’accettare le disuguaglianze tra le varie entità nazionali, in un cosmopolitismo capace di integrare “le diverse maniere di vivere l’alterità culturale”. Le spinte sovraniste attuali, nazionaliste sul piano istituzionale ma europeiste nella rivendicazione di radici storiche e religiose comuni, in realtà tendono a legittimare l’esclusione di chi, arrivando da zone povere e conflittuali della terra, preme ai confini, e chiede di essere accettato portando il proprio contributo di lavoro e di sapere.
A questa nuova anima multirazziale e multiculturale delle società occidentali, Todorov dedicò i suoi ultimi anni di studio e di impegno civile, con la convinzione che l’arte e la letteratura possono salvare sé stesse e il mondo solo aprendosi ai contributi più diversi, mettendo a tacere paure e pregiudizi. Da esule bulgaro in Francia aveva sperimentato su di sé la difficoltà dell’integrazione, il peso della diffidenza e del rifiuto: con la sua testimonianza afferma che l’unica soluzione per uscire indenni dalla tagliola discriminante dell’intolleranza consiste nella capacità di conoscere e accogliere la diversità a livello personale e politico, poiché la storia umana è fatta di “una serie di impercettibili modificazioni”, prima individuali e poi collettive.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 21 maggio 2019