PATRIZIA VALDUGA, LIBRO DELLE LAUDI – EINAUDI, TORINO 2012
Questo nuovo, esile, volumetto di poesie di Patrizia Valduga, con dedica iniziale a Giovanni Raboni, «infinitamente amato», è suddiviso in tre sezioni, formalmente del tutto omogenee ( si tratta sempre di distici in endecasillabi), ma diverse nei temi, nei toni e nei destinatari cui la poetessa si rivolge. La prima parte, che ricalca modalità delle litanie e delle laudi medievali, fino ad imitare le giaculatorie popolari della devozione cattolica a noi più vicina, è tutta dedicata alla malattia e alla morte del suo compagno, che viene scongiurata, maledetta, temuta, ricattata, in versi che talvolta raggiungono l’altezza della perfezione («che tu sei il mio permesso di soggiorno / per dovunque, non solo per Milano», «Hai raddrizzato questo cuore storpio / restando muto, immobile e lontano», «Io sempre al limitare del mio niente»), altre volte si limitano a risultati un po’ troppo facili e banali: «Signore di ogni tempo di ogni vita, / per la sua vita ti dò la mia vita», «Sono preghiere, versi veri e vivi, / perché tu viva, amore. Amore, vivi!». La seconda parte scandaglia le ragioni di un’angoscia esistenziale che attanaglia l’autrice dalla primissima infanzia, e che ha trovato requie e scampo solo nella solidità rassicurante del suo amore per Raboni : «Adesso, amore, metti insieme tutto : / angoscia e rabbia, panico e piacere», «Ma questo male impresso nella mente / mi ha portato da te, vero?, Giovanni…», salvandola da memorie di violenze, malattie, sessualità precocemente vissuta e patita, più di qualsiasi terapia psicanalitica. La terza sezione del libro ritrova l’amaro sarcasmo e l’invettiva di prove precedenti di Patrizia Valduga, quando depreca «la prosaglia di tutti i giornalisti», e la cultura modaiola, effimera, superficiale che ormai domina Milano e l’Italia, escludendo dai suoi giri verità e grandezza. Ma da tutto il libro il lettore ricava il sospetto di un compiaciuto concedersi a una sorta di atteggiato manierismo, assolutamente scaltrito nei suoi esiti formali, ma alla fine simile a un collaudato esercizio di retorica, che perciò suona poco autentico, poco sincero.
«Leggendaria» n.93, maggio 2012