GIOVANNA CRISTINA VIVINETTO, DOLORE MINIMO – INTERLINEA, NOVARA 2018
Sulla copertina, due profili si fronteggiano, uno maschile e uno femminile, a suggerire il rispecchiarsi scisso di due personalità in una, di due corpi che si appartengono nella stessa pelle, riconoscendosi, cercandosi, rifiutandosi. Corpo e pelle sono infatti i sostantivi più reiterati in questi versi, realtà materiale e concreta a cui ancorarsi, da cui è impossibile e ingiusto prescindere.
La giovane autrice di questo intenso volume di poesie, Giovanna Cristina Vivinetto (Siracusa, 1994), si racconta sdoppiandosi in voci distinte e tuttavia compenetrantesi: la sua di oggi e quella dell’infanzia, la sua di figlia/figlio e quella di una madre presente-assente, il bisbiglio intimorito dell’autocoscienza e quello imperioso, giudicante, della società. Parla di perdita e scoperta, di morte e rinascita, metaforizzate in mani che si aprono carezzevoli o si chiudono severe, in luce e oscurità, in perdoni richiesti e rifiutati. La cesura, il taglio a cui spesso questa scrittura fa riferimento è senz’altro un accadimento fisico, ma insieme supera la fisicità, nella nostalgia di un’integrità recuperata (le due metà del mito del Simposio?) all’interno di un abbraccio amorevole e comprensivo, di un ritorno al ventre materno, all’umida conca di un terreno boscoso: che difenda, protegga e ricomponga. Quello di Giovanna è un continuo interrogarsi e interrogare, sé stessa e la natura, senza recriminazioni, anzi spesso cercando una razionalizzazione che si esplicita in terminologie scientifiche e mediche, con una prosaicità tesa ad arginare l’emotività dell’espressione poetica. Che tuttavia fuoriesce, irrefrenabile, dolore minimo che non accetta silenziatori: «Sarà che la voce interna fiorisce / solo a forza di strappi e toppe / mal ricucite – da lì sguscia l’anima».
La simbiosi con la figura della madre, il sovrapporsi del punto di vista tra chi ha generato e chi è stato generato, e chiede di essere messo al mondo di nuovo, trovando una corrispondenza fiduciosa e un incoraggiamento verso l’approdo a una vita realizzata, è affettuosamente evidente negli esiti più toccanti della scrittura: «Così l’attesa era la tua. / Aspettavi da anni come si attende / la salute ai piedi di un malato, / come chi ha perso qualcuno / smaltisce il male sulle scale / di casa. Quegli occhi erano / una preghiera, un inno muto / alla rinascita».
Giovanni e Giovanna si confrontano e si comprendono, uno nei confini dell’altra, in attesa dello schiudersi del bozzolo che li serra anima e corpo, aprendosi finalmente a un volo leggero: «Ci vollero diciannove anni / per prepararsi alla rinascita, / per trasformare la distanza tra noi / in spazio vitale, il vuoto in pieno, / il dolore in malinconia ‒ che altro / non è che amore imperfetto. Aspettammo / i nostri corpi come si aspetta / la primavera: chiusi nell’ansia / della corteccia. Capimmo così / che se la prima nascita era tutta / casualità, biologia, incertezza ‒ l’altra, / questa, fu attesa, fu penitenza: / fu esporsi al mondo per abolirlo, / pazientemente riabilitarlo». Ecco quindi che la voce giovane e matura di Giovanna Cristina Vivinetto sa fare dono della sua esperienza sofferta agli altri, anche a chi non capisce, a chi teme, a chi giudica. Ripercorrendo gli anni nelle varie sezioni del libro, da Cespugli di infanzia a La traccia del passaggio, fino al superamento del Dolore minimo in una ritrovata e consapevole ricomposizione di sé, l’autrice affronta una trasformazione, una metamorfosi, una migrazione (come suggerisce Alessandro Fo nella postfazione) che avviene attraverso la conquista della parola poetica, unica parola che salva tra le tante altrui (sbagliate, superficiali, indiscrete): «Per acquietare il male che lo assale / il poeta lo canta. // … Così il mio male si estingue / su ogni mio verso. Lo canto, / lo urlo per liberarlo dal groviglio / di pelle che ha contagiato».
© Riproduzione riservata https://www.sololibri.net/Dolore-minimo-Vivinetto.html 12 maggio 2018